sommario dei post

venerdì 19 aprile 2013

§ 015 190413 False friends,1: lutto.

Vediamo di mettere in piedi una rubrichetta sui 'false friends'. Questi ultimi altro non sono che quelle parole che recano un significato capace, nelle diverse lingue, di generare confusione, di produrre abbagli, cioè di far prendere lucciole per lanterne a qualche malcapitato interprete (spero non nel senso di 'traduttore'...) Un esempio semplice semplice, sulla bocca dei cirotani che hanno avuto a che fare con la lingua giargianese: katz, gatto in tedesco, in cirotano ...(omissis).
La parola di oggi è 'luttu', lutto, che deriva dal verbo latino 'lugere' (piangere): campi lugentes erano, in pratica, i corrispettivi degli odierni cimiteri. La parola 'lutto' indica il dolore che si prova per la dipartita di una persona cara, indica cioè soprattutto un sentimento, poi il significato si è allargato, ricorrendo alle figure retoriche tradizionali della lingua italiana, come ad esempio nell'espressione 'portare il lutto', passando dal dolore intimo alla espressione esteriore, cioè al vestrire secondo la diversa gradazione del lutto (grave, mezzo lutto, leggero), con tutta una serie di formule ben consolidate, fin nei particolari (cosa indossare e per quanto tempo, relativamente al grado di parentela).
Il false friend è il seguente: 'è passatu u luttu', che in italiano potrebbe interpretarsi, erroneamente, 'il lutto è passato', cioè è stato metabolizzato, accettato, razionalizzato, magari secondo le schematizzazioni della psicotanatologa svizzera Elisabeth Kubler-Ross, e invece, 'è passatu u luttu' significa, a differenza dell'italiano, 'è passato il corteo funebre', significato che la parola in oggetto ha assunto nella nostra parlata cirotana, insieme ad altri significati più riconducibili a quelli della lingua italiana: e tanto per confondersi un po' le idee, noi diciamo 'jìre aru luttu', cioè andare al funerale, mentre in italiano non ci pensano nemmeno, a dire così (almeno così mi pare).
Ma che bell'argomento!

§ 014 190413 Formazione e sviluppo di Ciro' Marina, 2.

Purtroppo la Professoressa Maria Luisa Gentileschi non ha risposto alla mail in cui le chiedevo l'autorizzazione a far apparire in questo luogo sperduto -cioè nel presente blog- il saggio di cui al titolo. Questo mi dispiace, ma ancor più mi spiacerebbe violare la proprietà intellettuale altrui, per cui rimuovo prontamente il testo che avevo precedentemente postato. Rimango comunque convinto che il frutto del lavoro intellettuale debba in qualche modo essere condiviso e adempiere ad un compito preciso, che è la diffusione della cultura e del sapere, non potendosi relegare lo scibile sui ripiani di biblioteche a volte irraggiungibili. Ad esempio: se la casa editrice Einaudi, che ritengo sia proprietaria dei diritti della 'Grammatica Storica...' di G. Rohlfs, non si decide a ristampare quei volumi, quale sarebbe il risultato di questa scelta di mercato? Forse non sbaglio di molto se dico che mi sembra quasi un sequestro di produzione intellettuale. E' solo un esempio, chiaro, però... però le leggi di mercato e il progresso culturale troppo spesso non vanno di pari passo, e purtroppo è sempre la cultura a rimanerne penalizzata.
Vedere:
http://originicirotane.blogspot.it/2014/11/144-ml-gentileschi-formazione-e.html

venerdì 12 aprile 2013

§ 013 120413 Formazione e sviluppo di Ciro' Marina, di Maria Luisa Gentileschi


   Il testo che segue (vedere post successivo) è la parte iniziale di ‘Formazione e sviluppo di Cirò Marina’, un saggio di indagine geografica, sociale ed economica, dovuto all'opera della Professoressa Maria Luisa Gentileschi, apparso sulla rivista ‘Studi Meridionali’, Roma 1970, p. 3-54, e che è stato adattato graficamente dallo scrivente, nel senso che la numerazione delle pagine e l’aspetto grafico di alcune di esse sono stati modificati.  E' mia intenzione chiedere alla professoressa Gentileschi l'autorizzazione a postare anche il resto del presente lavoro, del quale si apprezza la serietà metodologica e che oggi, a più di quarant'anni di distanza, si presta egregiamente come 'contraltare' per poter intendere quanti e quali mutamenti, nel bene e nel male, si siano prodotti nel territorio cirotano, sotto vari punti di vista, economici, sociali, ma a ben guardare, e senza voler esagerare, anche dal punto di vista 'naturalistico', se non 'geologico', considerando la variata morfologia di alcuni tratti costieri. Si tratta, io credo, di una istantanea sapientemente realizzata e da tenere a mente nell'intraprendere ulteriori studi sui territori esaminati.


                                                                                              Cataldo Antonio Amoruso, 2012.
Vedere:
http://originicirotane.blogspot.it/2014/11/144-ml-gentileschi-formazione-e.html
                                                                                            


mercoledì 10 aprile 2013

§ 012 100413 Panorami di Ciro' Marina

A dispetto del bianco e nero, credo che la cartolina in alto non sia più datata di quella centrale a colori. Confrontando le due foto, quella centrale e quella in basso, si può apprezzare (faccio tanto per dire...) la frenetica urbanizzazione del paese e il completamento di quel tratto in variante della SS 106 Jonica (uno dei primi ad essere realizzato, negli anni 70), che, con un po' di buone speranze, qualcuno chiamava 'autostrada', altri più modestamente 'superstrada', la cui realizzazione comportò la reale 'sparizione' di alcune collinette circostanti, per il prelievo di terre per la realizzazione della sopraelevazione della sede stradale. Nella foto centrale svettano in tutta la loro bellezza e possanza le due 'pigne' all'ombra delle quali ho vissuto i miei primi vent'anni. Si tratta di due alberi che in un'altra realtà sarebbero stati protetti e preservati; spero che almeno uno dei due giganti verdi sopravviva. Le loro chiome sono quelle che potete vedere a destra, vicino a quella serie di magazzini dai tetti a spiovente.

lunedì 8 aprile 2013

§ 011 080413 Vestivamo alla cirotana, 1.

    Del vestire degli sposi della classe di galantuomini non occorre parlare, poiché si siegue la moda; e del popolo l'antico costume va oramai dileguan-dosi: e perché fra un'altra o più due altre generazioni tal costu-me sparirà, ho voluto far disegnare quello che in pochissime ancor perdura, e che si osserva nella seguente figura alla me­glio ritratta dall'architetto D. Matteo Pignatari mio com­paesano, e che con tanta gentilezza ha voluto compia­cermi. E cominciando dalla testa, eccone la descrizione.


La pettinatura è a jette, o sia formandosi della capella­tura due trecce una a diritta ed altra a sinistra, e poi in­trecciandosi alla parte posteriore e sull'occipite con lun­go nastro rosso chiamato jettolo, per quanto son lunghe le due trecce, e con un palmo dippiù per ciascuna estre­mità, che serve poi a legarle ed annodarle con pomposetta cioffa. Si cuopre la testa col così detto ritorto, che è di musellino velato, o lino, che con semplice magistero si ripiega sull'alto della fronte e si rovescia sull'altra metà che pende sul collo: al vertice si appunta con spilla di oro. Orecchini, o pendagli, o così detti ciarcelli con­sistenti in grosso globetto d'oro attraversato da un filo di oro a cerchio. Alla gola cannacca detta tondo di cocci o globi d'oro, crocetta, e filetto a rosario d'oro sul petto, che vien coverto dal collare della camicia ricamato, e di più da fazzoletto bianco di musellina appuntato fra le poppe da spilla anche di oro sormontata da un uccelletto; l'abito detto vestito, di drappo fiorato in oro, fondo o turchino, o per lo più cremisi, sostenuto da una cinta larga al petto e colle così dette spallette, e corpo di drap­po: e questo abito soprapposto alla camiciola di panno scarlatto. Le maniche rotte ed allacciate in modo da far comparire tanto alla parte superiore la camicia, detta sot­tana pomposamente gonfiata e ricamata col così detto car­tiglio, quanto alla parte inferiore cioè ai polsi; con riccio ricamato detto cochiglia, appuntato con bottoncini di ar­gento. Fazzoletto bianco in mano, e paternoster con im­postali di oro e d'argento, crocifisso d'argento a filogra­no. Il grembiale o senale di molla color ceraso se il ve­stito è turchino, o viceversa, orlato di gallone in oro, alla cintura; il cinturino anche di gallone di oro. Anelli a monte d'oro; anello con pietra turchina, detto turchi­netto, e  fascetta; calzetta bianca, scarpe della stessa roba dell'abito con fibbie di argento lavorate a filograno.

                  Giovan Francesco Pugliese, Descrizione ed Istorica narrazione… volume II.
L'immagine in alto a destra è quella della sposa cirotana del XVIII secolo, ritratta dal Pignatari e descritta dal Pugliese (nel secondo volume della Descrizione...), alla quale ho aggiunto dei tags; l'altra immagine è tratta dal volume di E. Imbriani 'Vestiti e colori del Regno delle Due Sicilie', Capone Editore. L'immagine, opera dello svedese C.J. Lindstrom, risale alla prima metà del XIX secolo.

venerdì 5 aprile 2013

§ 010 050413 Lisitania, 3.


Lisitania, parte prima.
Lisitania, parte seconda.
Lisitania completa, con audio.
Volìssa šcrìvirə comû pàţrima sapìa cuntarə.
E allùra i genti, quànn hànu sentùtu l’autubànnu, si sù guardàtî e s’han addimmannàtu ‘e mo’ chìssu cchi ba’ ţrovànnu?’ ‘Vèrgina… ùnica… ma pènzica u rre fòssa scirchjàtu?’ Ma veramèntə, chìri pòvîri gènti, pur ca stripitijàvînu, già u sapìvin ca ncun’ata crošcata avìjn ‘e pàtîrə…e cumfàtti, i sordàti ‘e Custantìnu, ca già un bidìjnu l’ura ‘e si ricògghjiri ari paìsi so’, stàvinu cercànnu i càsi càsi a sa guagnùna… vèrgina e de ùnicu nùmu.
A chìddi tèmpi c’èra na casèdda, vicìn addùvə mo’ c’è a Funtana d’u Prìncipu, e ci stàvînu ‘e càsa duj pòvîri vècchji, ca avìjn na fìgghja bèdda com na špera ‘e sùlə. Era na casa ‘e duj cammarèddi, šperdùta mmenz a nu cannìtu, sutta a tìmpa d’a Madonna Rita, e si pòvîri cristiàni l’avìjn avùta, sa figghja, quann un ci cridìjnu cchjù, com nta stòria ‘e Zagarìa, chiru ca l’era siccàta a lìngua. Iddi però u sapìjnu, ca tutta chira graźa un potìa duràrə ppè sèmpə… ca chira luce ‘e l’occhj avìa de finirə…
A figghja si chjamàva Lisitania, vèrgina comu nu jùru, e ùnica, sùbba a fàccia d’a terra, ccù chìru nùmu…
Quànnu i sordàti sun arrivàti, a lùcia ‘e l’occhj sòj l’ha com addumàti… Non tangenda virgo, senza parràrə e ccur u cor amàru, i sordàti l’han accumpàgnata addùvə i mastri, ca ciancènnu, cìtti, e šcuri nta faccia, l’hanu fravicàta, vìva,  attènti a unn’ a toccare mancu ccù nu jìtu, lassànnu lìbîri sùlu chir’occhj, bèddi comu na špèra ‘e sulə, ma arrètu ara gravìgghja, ‘e manèra ca potìssinu vìvîrə ‘e maru.
Dìci ca tutta a notta ha chjovùtu e u maru ha tempestàtu, e ca i navi 'e Custantinu parìvinu còrchjuli 'e nuci cavucijàti, ca i bèstîj èrinu ammutàti d'a pagùra di tròni, e ca ntu cièlu fujìvinu sul i lampi, ca a terra si rapìva e ogni bota si sentìva na risàta, ca i pòviri genti èrini tutti stritti l'unu ccù l'atru e i quatrarèddi ciancìvînu ammucciàti sutta i letti.
 
A matìna doppu, u palàzzu era finìtu.
Lisitània, vèrgina e ùnica, si vìda tannu quannu u maru e u cièlu, doppu ca šcampa, sun du stessu culùru ‘e l’occhji sòj ca vìvînu, ancòra e sempə.

Vorrei scrivere come mio padre sapeva narrare.
E allora la gente, udito l’alto bando, si guardò domandandosi ‘ e ora questo di cosa va in cerca?’ ‘Vergine… unica… forse che il re è impazzito? Ma invero, quella povera gente, pur levando alte voci, già sapevano che qualche altra disgrazia dovevano patire… e infatti, i soldati di Costantino, che ormai non vedevano l’ora di fare ritorno ai loro paesi, già cercavano casa per casa quella ragazza… vergine e dal nome singolare.
C’era una casetta, dalle parti dove oggi c’è la Fontana del Principe, e vi abitavano due poveri vecchi, che avevano una figlia bella come una spera di sole. Era una casa di due sole stanzette, persa in mezzo ad un canneto, sotto il colle di Madonna d’Itria e quei poveri cristiani l’avevano avuta, questa figlia, quando ormai non ci credevano più, come nella storia di Zaccaria, quello al quale si era seccata la lingua. Essi però già lo sapevano, che tutta quella grazia non sarebbe durata per sempre… che quella luce degli occhi sarebbe finita…
La loro figlia si chiamava Lisitania, vergine come un fiore, e unica, sulla faccia della terra, con quel nome…
Quando i soldati sono arrivati, la luce degli occhi suoi li ha come illuminati… Non tangenda virgo, senza parlare e col cuore amaro, i soldati la condussero presso i mastri, che piangendo, zitti, e scuri in volto, la murarono, viva, attenti a non toccarla neppure con un dito, lasciando liberi solo quegli occhi, belli come una spera di sole, ma dietro una grata, in modo che potesse vivere (bere) di mare.
Si dice che tutta la notte sia piovuto, e che il mare abbia tempestato, che le navi di Costantino sembravano gusci di noce scalciati, e gli animali fossero resi muti dalla paura dei tuoni, e che il cielo tutto fosse percorso dai lampi, che la terra si apriva e ogni volta si udiva una risata, che le persone se ne stessero strette  l'una all'altra e i bambini piangevano nascosti sotto i letti.

La mattina seguente il palazzo era completato.
Lisitania, vergine e unica, si vede allora quando il mare e il cielo, dopo spiovuto, sono dello stesso colore degli occhi suoi che vivono, ancora e per sempre.

giovedì 4 aprile 2013

§ 009 040413 Lisitania in cirotano, parte seconda.

Lisitania, parte prima.
Lisitania, parte terza.
Lisitania completa, con audio.

Ma cumpòrta òj, cumpòrta domàni, quànn oramài un ni potìa cchjù, e già s’èra decìs a i farə mpicàrə a tutti quanti, màsti e discipuli, aru rre, menţrə ca passîjàva di pàrti d’a Lippùsa, n’òmînu rannu rannu, nu gigàntu, li s’è paràtu davànt. Oj mammarèdda meja, ch’era nu špìrdu! Ma Custantìnu, ca all’apparizziòni c’era già mparàtu, l’ha dittu aru špìrdu ‘e si mòvir a parràr, ca tantu a iddu un ci facìa né càvîru e né frìddu… Allùra u gigànt, nu pòcu ammusciàtu, l’ha dìtt a Custantìnu: … ‘e va bo’, vuj sìti u rre, ma ìj sùgnu sùlu ànima, e un mi pòtiti fàre nèntə: sùgnu venùtu ppè bi dìrə ca u palàzzu ca stàti fravicànn è òpîra d’a Tantazziòna! Si volìti ca a fràvica va avànt, vo' ca l’annumàti na criatùra, ch’è de èssîrə vèrgina ed è de èssîrə ùnica. Cercàtila e fravicàtila nta nu mùru du palàzzu, vìva, ma lassàti na ravìgghja ntu muru ca guàrda verz u màru: sùl eccussì ppè semp po’ campàrə: vivènn ccù l'acqua d'u maru… Mo’ vàju, e šcordàtivi ‘e mija, Maestà!’ E com’era benùtu, eccussì è šparisciùtu.
U rre ha fattu na capîzzîjàta, murmurîjannu… 'n’àtru edìttu, mo’ ci fòssin ntruccati!'
Ar ogni boncuntu:
Genti de Paterno, et de lo Ziro’, nosta majestà romana et de Bisantio, u mperatoru Custantino, busca a una criatùra illam, quae non habet vidùto umquam viri faciem, virgo certa et unica et de modo ca non potest cum autri spàrtere lo nomine. Sinite parvulas ad imperatorem prospiciere, pro exstruendo palatio.

Hi Marìa, cchi bànnu!, ca puru Custantìnu facìa na menza faccia pper a vrigògna…
Ma poi, sopporta oggi, sopporta domani, quando ormai non ne poteva più, e già si era deciso a farli impiccare tutti quanti, mastri e aiutanti, al re, mentre se andava a spasso dalle parti della Lipuda, un uomo enorme, un gigante, gli si parò innanzi. Oi mamma mia, ché era un fantasma! Ma Costantino, che alle apparizioni non era nuovo, disse allo spirito di darsi una mossa a parlare, che tanto a lui non gli faceva né caldo né freddo... Sicché il gigante, un poco scornato, disse a Costantino: '... e va bene, siete voi il re, ma io sono solo anima, e non potete farmi nulla: sono venuto per dirvi che il palazzo che state costruendo è opera del Maligno! Se volete che la costruzione proceda, esige che gli dedichiate una creatura, che deve essere una vergine e deve essere unica. Cercàtela e muratela in un muro del palazzo, viva, ma lasciate una grata nel muro, e che guardi verso il mare: solo così potrà vivere per sempre: vivendo (bevendo) con  acqua di mare... Ora vado, e scordatevi di me, Maestà!' E come era venuto, così scomparve...
Il re scosse il capo, mormorando... 'un altro editto, niente niente vi abbiano preso gusto!'
Ad ogni buon conto:
omissis (che è meglio!)
Madonna che bando!, al punto che anche Costantino nascondeva mezza faccia per la vergogna, (figurarsi io che l'ho scritto...).  

lunedì 1 aprile 2013

§ 008 010413 Lisitania in cirotano, parte prima.

Lisitania, parte terza.
Lisitania, parte seconda.
Lisitania completa, con audio.

Cercherò di scrivere questo testo facendo ricorso alle regole ortografiche per la parlata cirotana che sto tuttora elaborando. Nel contempo vorrei premurarmi di giustificare le scelte che dovrò fare, soprattutto quelle relative alla pronuncia.

C’era na vota nu rre[1], e po’ n’imperatòru[2]: si chjamàva Custantìnu[3]. Avìa na mùrra[4] ‘e[5] fìgghji e[6] un sàcciu quànti nipùti. Nu bèddu mumèntu ha decìsu[7] ca u règnu ci l’avìa de špàrtirə[8] a ìddi, e allùra sinn[9] jìva de Ròma u màru màru[10], ppè bìdiri còm mègghju potìa cuminàrə. Jènnu e benènnu ‘e Ròma all’Orièntu, attà ca passàva de’ sì parti, è benùtu a sapìrə ca addùvə mo’ c’è a Marina ‘e Cirò, cèrti marinàri avìvinu trovàtu nu quàtru d’a Madònna ca facìva miràculi, e ca l’avìjnu mìsu nta na gghjesîcèdda sùbba na tìmpa. Uu rre, allùra, ci’ha dìttu aru cumannàntu da nàva ‘e si fermàrə ca volìa bidìrə su quàtr e stàrə nu pòcu a pregàrə e a si riposarə n’antìja.
Ma quànn ha bìst u pòstu, ccur u màru ca lucicàva, quètu còmu na tàvula e sènza nùvulî, e sentènnu l’ordùru di gelsomìni, du righînu e du finocchjèddu ‘e timpa, allùra, puru nturdulisciùtu nu pòcu du vìnu, u rre ha decìsu ca doppîtùttu ci potìa mègghju špissîjàrə, nta chìru ròitu, si nu bèddu palàzzu su facìa fravicàre d’un tùttu.. E po’, cchi frètta c’èra? Intàntu ch’i fìgghji soj si rumpìvinu i còrni, ìddu sî potìa scialàrə nta chìra vàdda addùvə avìa decìsu ca ci’avìvinu ‘e fravicàr u palàzzu, mmènz i pèri ‘e nešpuli e i caracùmmirî.
Annavòta i sordàti e i gènti du pòstu hànu cuminciàtu a cògghjri u lignàmu e a farə a càvicia, e i mattùnî, sùlu ca, fràvica ca ti fràvica, tùtti u sàntu jùrnu, a matìna dòppu, parìa ca l’acquatìna sciogghjìva i mùri. Na còsa ‘e pàcci, na còsa mài sentùta… e chin c’u dicìva a u rre ca tùtti chìri màsti e discìpuli unn’èrinu càzzu ‘e jazàre màncu nu mùru? E aru pòviru capintesta ci facìvinu pùru a cogliòna, ch’i i discìpuli ci dicìvinu, appèna vigghjànti, ‘frìchîti mastu, cù furnu è scioddàtu!’
U rre l’avìa capìtu, ma sìnni stàva cittu, ch’i volìa šprovàre, datîsi ca cuminciàva a penzàrə o ch’èrinu tùtti vacabbùnni… o puramèntə ca si c’èra mìsa a Tantazziòna.


C’era una volta un re, e poi un imperatore: si chiamava Costantino. Aveva molti figli e non so quanti nipoti. Un bel giorno decise che il regno andava spartito tra di loro, e allora se ne andava da Roma, correndo i mari, per vedere come meglio poteva sistemare la faccenda. Andando e venendo da Roma all’Oriente, venne a sapere che nel sito dove oggi si trova la Marina di Cirò, certi marinai avevano trovato un quadro della Madonna e che l’avevano esposto in una chiesetta sopra un colle. Questo re, allora, ha detto al comandante della nave di fermarsi, ché voleva vedere quel quadro e starsene un po’ in preghiera e riposarsi un tantino.
Ma poi, quando ebbe visto il visto, col mare che luccicava, immobile come una tavola e senza nuvole, e sentendo l’odore dei gelsomini, dell’origano e del finocchietto selvatico, beh allora, reso anche un po’ allegro per il vino bevuto, il re decise che dopo tutto poteva meglio dimorare, in quel posto, se si fosse fatto costruire un bel palazzo. E poi, che fretta c’era? Intanto che i figli si scontravano tra di loro, egli avrebbe potuto spassarsela in quella valle dove aveva deciso che dovevano costruirgli il palazzo, tra gli alberi di nespole e di corbezzoli.
Subito i soldati e gli abitanti del luogo cominciarono a raccogliere il legname e a fare la calce, e i mattoni, solo che, costruisci e costruisci tutto il santo giorno, al mattino successivo sembrava che la rugiada avesse disciolto i muri. Una cosa da pazzi, una cosa mai udita… e chi glielo diceva al re che tutti quei capomastri e apprendisti non erano capaci di elevare neanche un muro? E il povero soprintendente veniva anche deriso dalle maestranza che di buon mattino gli dicevano 'frègati, mastro, che il forno è crollato!'
Il re l’aveva capito, ma taceva, voleva che fossero loro a scoprirsi, dato che cominciava a pensare o che erano tutti degli sfaticati… o che ci si fosse messo di mezzo il Maligno.





[1] Rre: non di raddoppiamento fonosintattico si tratta, ma di doppia erre iniziale.
[2] Inizio con il più classico degli inizi: c’era una volta un re, nell’intento non celato di imitare il narrato degli ‘antichi’.
[3] Proprio lui, l’imperatore Costantino (274-337), quello dell’editto di Milano (313).
[4] Non proprio una murra (moltitudine, mandria), ma sempre sei erano.
[5] Scriverò questa ‘e’, equivalente a ‘di’, preposizione semplice, facendola precedere dall’apostrofo, non tanto per indicare l’aferesi, cioè la caduta della ‘d’ iniziale, bensì per distinguerla da ‘e’ congiunzione.
[6] Vedere nota precedente.
[7] Se confrontiamo la pronuncia di nu rre (rigo 1) e decisu ca, noteremo il diverso comportamento della ‘u’ finale: pienamente pronunciata in nu rre, tanto da dare luogo ad una forma teoricamente univerbale: nurrè, a differenza di decisu ca, dove la ‘u’ è quasi indistinta.
[8] La ‘s’ iniziale del gruppo ‘sp’ è palatalizzata, quindi la scriverò š; questo fenomeno, cosa che trovo abbastanza strana nei dialetti meridionali, non avviene con il gruppo ‘st’: stupidu, stortu…
[9] Scrivo ‘sinn’ perché sento che una eventuale dizione ‘sinni’ sarebbe ridondante: la ‘i’ finale, ancorché solo accennata, confluisce nella parola ‘jìva’.
[10] Maru maru: la prima ‘u’ è intera, la seconda appena avvertita.