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martedì 16 giugno 2015

§ 169 160615 Sharo Gambino: Mario Fortunato, La parola 'omosessuale'.

   Lunghissimo è l’elenco delle meritorie opere di Sharo Gambino (Vazzano 1925 – Lamezia Terme 2008); alla sua antologia Calabria Erotica (Edizioni Città del Sole, Reggio di Calabria 2011) appartengono i passi che seguono, sempre fidando nella benevolenza dei detentori del copyright (mio unico e solo intento è far conoscere ‘cose di Calabria’, e nessun altro fine intacca queste mie ‘ricerche scolastiche’, cioè i post che qui propongo).
   Parlare di sesso da calabrese a calabresi mi sembra addirittura strano, se non inutile, tanto essendo pervasa la vita, dei calabresi ma non solo, da quello che ci viene rimproverato o affibbiato come un chiodo fisso. Bisognerebbe leggere l’antologia della quale parlo, o ‘Il previtocciolo’, di Don Luca Asprea, al secolo Carmine Ragno (ebbene sì, un prete…) per saperne di più, o per ricordarne di più, del sesso in Calabria… Discorso lungo, irto, spinoso, troppo spesso ignorato volutamente, taciuto, nascosto, scansato assiduamente.    Difficilmente qualche malcapitato lettore conoscerà il rito della farchinoria, come descritto ad inizi ‘900 dall’antropologo Giovanni De Giacomo (Cetraro 1867 – 1929), e quel rito  è sconosciuto non tanto per ignoranza quanto per impossibilità di conoscerlo poiché mandato taciuto, cancellato agli occhi e alla intelligenza del pubblico: qualcosa di cui vergognarsi a nome di una intera regione e della nazione di appartenenza di quella, un po’ come faceva – almeno così si dice – il caudillo Francisco Franco, nascondendo alla vista dei non spagnoli gli abitanti di Cáceres e paraggi, in quanto gozzuti. Allo stesso modo di riti ancestrali come la farchinoria non si doveva parlare, e infatti, chi ne sa qualcosa?
   Mi piace qui riportare e le parole, franche, di Sharo Gambino e quelle di Mario Fortunato, che con grande semplicità e naturalezza ci racconta il nascere di due suoi ingressi: l’uno nella consapevolezza della sua sfera sessuale e sentimentale, l’altro, parimenti consapevole, nel mondo della letteratura. A Cirò…
   Nota: si tratta di brani non integrali; manca inoltre la nota n° 3 del testo di Sharo Gambino.

Mario Fortunato
di Sharo Gambino

                                              amore, romanzi e altre scoperte[1]

   Nato a Cirò nel 1958, Mario Fortunato ha vissuto a lungo a Londra, dove è stato Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura. Nel 2002 grandi intellettuali inglesi hanno pubblicato sull'Observer, su The Guardian e su The Indipendent (ripreso poi da Libération in Francia e da La Repubblica in Italia) un appello perché non venisse destituito dall'in­carico dal governo Berlusconi.
Come giornalista collabora con il settimanale L'Espresso e con la Stampa. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Luoghi naturali, e diversi romanzi, tra cui Il primo cielo, Sangue, e L'arte di perdere peso. Ha pubblicato per Theoria un libro/reportage, Immigrato (1990, scrit­to con Salah Methnani), e una personalissima guida per nottambuli, Passaggi paesaggi. Ha inoltre curato, nella collezione Einaudi Scrittori tradotti da scrittori, la versione italiana di Boule de suif e La maison Tellier di Guy de Maupassant.
   Alla nostra antologia non avremmo potuto far mancare il suo Amore, romanzi e altre scoperte, che non è un libro erotico ma un libro di vita - e quindi l'erotismo ci entra come una componente, impor­tantissima, dell'esistenza. Nel libro, potremmo chiamarlo una sorta di "ritratto dell'artista da giovane" (giusto il titolo di un famoso romanzo di Joyce), Fortunato fa una rievocazione della propria giovinezza e dei suoi passaggi cruciali, fino all'ingresso nell'età adulta con il consegui­mento della laurea; una formazione che ha alla base due esperienze fondamentali, che sono la passione per la letteratura e la scoperta/ accettazione della propria omosessualità. Come dire, due "iniziazio­ni" alla vita e alla conoscenza di sé, educatrici e seduttrici, palestre di apprendistato intimistico e sentimentale, infine apportatrici di distin­zione, di una maniera affatto "diversa" di percepire se stesso e il mondo. Letteratura e omosessualità sono anzi nel romanzo di Fortunato una cosa sola, perché lo scrittore rende omaggio ai suoi autori preferiti con una scelta di pagine dei loro romanzi e, nella fattispecie, la stragran­de parte delle opere ospitate fanno riferimento all'omosessualità. Da Proust a Thomas Mann, da Truman Capote a Pier Vittorio Tondelli, a cui Fortunato dedica un intero capitolo, carico di ammirazione e di amicizia: autore indimenticato di Altri libertini e Camere separate, anche lui omosessuale ed oggi icona di una generazione, come ricorda Enrico Palandri in un bel libro: Pier Tondelli e la generazione, uscito qualche anno fa[2].
   Gli anni di cui Fortunato scrive: quelli della sua giovinezza erano i "caldissimi" anni Settanta, in cui il discorso sul sesso si politicizzava e in cui anche la letteratura si politicizzava, con un che di eccessiva­mente ideologizzato, di esteriore o di preconcetto. Era l'epoca in cui i Gender studies attribuivano a ciascun testo letterario una sessualità latente, un pensiero sessuato: il filone della letteratura femminista, quello dei gay, delle lesbiche eccetera. Fortunato ricorda quegli anni dandone un giudizio alquanto freddo, e rivendicando una propria separatezza e indipendenza: la passione per la letteratura, preferita alla politica; il suo non frequentare i circoli gay; in una parola, la sua maniera di essere "diverso" fra i diversi, sono come la ricerca di un modo di essere più privato e personale, di una verità più profonda, esemplificata, appunto, dalla letteratura. Letteratura che, usata come un'amante, gli insegna a scoprire e ad arricchire la propria identità (omo)sessuale.
   Il fatto, se non erro, rischia di capovolgere l'opinione che abbiamo formulato all'inizio, secondo la quale la letteratura erotica parlerebbe di sesso, ma non sarebbe sesso essa stessa, opinione formulata, veramente, soprattutto per evitare complicazioni di carattere "etico", tutelando la nostra opera da una eventuale accusa di iniquità. Ora leggendo For­tunato scopriamo, invece, che ci sono romanzi maschili, femminili e anche omosessuali. Certo essi non hanno sesso, perché non hanno un pene o una vagina, ma un genere evidentemente sì (così come hanno un genere le parole, anch'esse maschili o femminili, perché noi parlia­mo un linguaggio sessuato). Di conseguenza, non esisterebbero letture «neutre». In qualità di lettori di libri, il nostro essere maschi, femmine o altro, entra in relazione col loro essere maschi, femmine o altro - come una specie di coito. Quello che siamo, in fatto di sesso, dipenderebbe anche da questa o quella lettura che abbiamo fatto, esattamente come un'amante che abbiamo avuto. Cosa che è straordinariamente vera per questa antologia, che è la Cecia (la prostituta calabrese nata dalla penna di Vincenzo Ammirà, n.d.b.), la Cicciolina, la Jessica Rizzo di tutte le letterature. Con grande soddisfazione del sottoscritto che, in cuor suo, avrebbe sempre desiderato essere una donna, per poterla dare a tutti.

LA PAROLA «OMOSESSUALE»
di Mario Fortunato

   So di preciso quando ho sentito per la prima volta la parola «omosessuale». È stato a Cirò, in Calabria, il paese in cui sono nato. Avevo sei anni. Era un pomeriggio assolato d'estate, uno di quei pomeriggi che sembrano dover bruciare in eterno. Sulla piazza, un gruppo di uomini (ma a ripensarci adesso, non avranno avuto più di venti-venticinque anni) chiacchierava rumoroso di donne e di sesso. Io stavo a sentire: il sesso esercita sempre un'attrazione particolare. Gli uomini parlavano e parlavano. Le loro parole stagnavano nell'aria immobile e appiccicosa. Di tanto in tanto, scuotendosi un poco, il grande albero al centro della piazza sembrava attraversato dalle loro parole. Io mangiavo il mio gelato alla crema e intanto ascoltavo. Ascoltavo senza capire un granché: ero un bambino piuttosto ingenuo e in materia di sesso completamente tonto.
   Poi qualcuno di quegli uomini pronunciò la parola. Mi colpì perché era una parola lunga, composita, e mai sentita prima. L'uomo, che stava vantando le proprie capacità amatorie, disse più o meno: «A me le donne piacciono tutte, perché io sono troppo omosessuale». Inten­deva dire, credo, un uomo dalle spiccate capacità sessuali. Da allora, e per un certo numero di anni, esclusi nella maniera più assoluta di essere omosessuale.
   Non ricordo con precisione invece quando, per la prima volta, ho provato uno stimolo sessuale. A me piaceva giocare con le bambine, anche se erano più grandi. I loro nomi erano dolci. Una si chiamava Rosetta, un'altra Silvana, un'altra ancora Filomena. Giocavamo tutti i pomeriggi davanti a casa mia. Erano lunghi e semplici quei pomeriggi. In genere, si giocava a palla, oppure a nascondino. Faceva sempre caldo, in quegli anni. O almeno così mi sembra adesso. Un giorno venne a giocare con noi Cecé. Più grande di qualche anno, era parente o vicino di casa di una delle mie amiche. Biondo, gli occhi azzurri. Cecé era molto più bello di me, molto più forte. Ricordo che mi fece l'impressione di un adulto. Con lui le mie amiche sì comportavano diversamente. Giocammo come sempre, ma avvertivo nell'aria una strana tensione: sembrava ci stessimo esibendo davanti a dei geni­tori invisibili. Sul tardi, ci mettemmo seduti sui gradini di casa. E io cominciai a raccontare delle storie totalmente inventate sulla mia fa­miglia. Storie piuttosto tragiche, fatte di fughe, di malattie e di morti misteriose. Non so bene perché inventai quel cumulo di fesserie, però ricordo che alla fine Cecé mi fissò dritto negli occhi e disse: «Cazzo», stringendomi la mano. Credo che arrossii per la prima volta in vita mia. Sarà stato quel rossore il mio primo stimolo sessuale?
   Non accadde nulla, nulla di preciso, fra me e Cecé. Non accadde quel giorno, e neppure nei tanti che passammo insieme. Ero innamo­rato di lui, adesso mi è chiaro, ma allora lo amavo come si può amare un paesaggio, o come si provano certe gioie immemori e del tutto gratuite. Non mi vergognavo dei miei sentimenti per Cecé. Il fatto di essere tonto in materia di sesso credo mi abbia risparmiato qualche amarezza. Non mi vergognavo dei miei sentimenti, anzi li sbandiera­vo. Cecé era così sveglio, così intelligente, così abile in tutto da farmi pensare che chiunque avrebbe dovuto adorarlo. Del resto, anche lui si adorava: era molto vanitoso, gli piacevano le mie lodi. E le ricambiava offrendomi una sorta di intimità animale che mi rapiva.
   Poi un giorno (ero un ragazzino molto studioso, anche un po' sec­chione, temo), ritrovai la parola «omosessuale» scritta nero su bianco sul Grande Dizionario Enciclopedico che mi era stato da poco donato. Lessi avidamente, chissà perché. Forse, ricordavo quei discorsi sul ses­so orecchiati nella piazza del paese qualche anno prima. Fu a dir poco una sorpresa. Sembrava che il Grande Dizionario Enciclopedico avesse spiato i miei sentimenti per Cecé e li avesse tradotti in un linguaggio freddo e presuntuoso.
   Dunque, ero un omosessuale. Che strana parola, per un ragazzi­no. Ne avevo sentite altre in giro che, ora mi rendevo conto, volevano dire la stessa cosa. Parole piuttosto pesanti: insulti. Però la parola «omosessuale» era la più strana di tutte: forse perché, con quel suo tono scientifico, asettico, faceva pensare di essere parecchio malati e di doversi rivolgere di corsa a un medico. Io, per dire la verità, non mi sentivo male, anzi mi sentivo bene, in forma. Da quando avevo conosciuto Cecé mi pareva che tutto il mondo (cioè il mio paese) fosse un posto esaltante. Io e lui si stava sempre insieme, si andava in giro, si chiacchierava, si giocava. Sempre insieme. Due cose però mi piacevano più di ogni altra: guardare le sue mani e sentirgli dire «Cazzo». Due cose che capitavano spesso.
   Mi sono domandato molte volte, in seguito, se Cecé fosse anche lui omosessuale. Non gliel'ho mai chiesto. Lui era sano e scattante come me. Solo più muscoloso. Il fatto di avere dei bei muscoli poteva  servire a non essere omosessuale? A ogni modo, a me non interessava
poi molto. Anche se di tanto in tanto mi sentivo strano e malinconico,  tutto sommato io ero felice di essere omosessuale, felice di amare Cecé.
  Quando, qualche anno dopo, lui si trasferì con la famiglia a Milano, cioè dall'altra parte dell'universo, per me fu un disastro. La notizia era nell'aria da tempo, ma all'inizio mi pareva assurda, inconsistente.
   Salutandomi, Cecé disse che avrebbe scritto, che ci saremmo tenuti in contatto in un modo o nell'altro. Se ne andò sorridendo, come niente fosse, mentre a me sembrava che il cielo tutto quanto, con le nuvole e la luna e i pianeti, mi stesse cadendo in testa. Ma non lo diedi a vedere a Cecé, né dopo ai miei genitori. Ricordo che mi chiusi in camera e rimasi immobile, come fossi stato fulminato. Avevo voglia di piangere, una voglia invincibile, ma resistei. Ero sudato dalla testa ai piedi per lo sforzo, ma non uscì neanche una lacrima.
   Che cosa ne sa un bambino dell'amore non ricambiato, dell'abbandono, che cosa ne sa della gelosia? Io non ne sapevo nulla. Cecé se n'era andato, emigrato con la sua famiglia in un luogo remoto chiamato Milano, e questo era tutto. I pomeriggi adesso sembravano un po' più vuoti e aridi, è vero, i giochi meno avventurosi e beffardi, ma in fondo tutto era come prima. Le mie amiche, il paese, le estati così lunghe e piene di profumi.
   Non ho mai rivisto Cecé, mai più avuto sue notizie. Continuai a pensare a lui, alle sue mani e al suo modo di dire «Cazzo», per un certo periodo di tempo. Poi semplicemente me ne dimenticai. Ma nessuno prese il suo posto per lunghi, lunghissimi anni. Avevo tanti amici, ero circondato da bambini, però il preferito, il compagno delcuore rimaneva lui, Cecé.
   Con la scomparsa di Cecé scomparvero, o almeno si inabissarono, i miei turbamenti, le curiosità verso le persone del mio stesso sesso. Anzi, potrei dire che scomparvero o si inabissarono turbamenti e curiosità verso il sesso in generale. Ciò che amavo più di ogni altra cosa, adesso, era la lettura. Leggere era divenuta la passione dominante. Jules Verne prima, poi Zola e Cechov, i Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre, la storia della Rivoluzione francese, il Diario di Anna Frank.     Leggere mi portava lontano, e io mi sentivo molto più libero, molto più ricco che in precedenza. Chissà, forse cercavo di raggiungere Cecé attraverso una terza dimensione, oppure semplicemente avevo scoperto il vero amore della mia vita. Chissà. Certo è che, in quegli anni, del sesso non me ne importava nulla, mentre della letteratura mi importava moltissimo.
   Cambiammo casa e paese. Ci spostammo sul mare. Un piccolo ter­remoto. La scuola, i compagni di gioco, tutto diverso. In quel periodo, penso, scoprii la solitudine.




[1] Mario Fortunato, Amore, romanzi e altre scoperte, Einaudi, Torino 1999.
[2] Enrico Palandri, Pier Tondelli e la generazione, Laterza, Bari 2005.

giovedì 11 giugno 2015

§ 168 110615 F. Vizza, 'Giano Lacinio Alchimista Francescano del Cinquecento', in Itaca, rivista, n° 28.

In altra occasione ebbi modo di discorrere con l'autore del libro, nonché fraterno amico, di cosa possa significare menar vanto di comuni origini. La mia conclusione, non deprimente, ma soltanto fattuale, forse, è che si possa essere al più contenti che ad un corregionale, concittadino, o 'paesano', sia toccato in sorte di accedere a fama od onori, quando e qualora questi siano meritati: ancor più se le mete raggiunte sono state attinte con l'impegno e la fatica, come nel caso di Francesco 'Ciccio' Vizza, il quale, manco a dirlo, si è limitato a schermirsi o poco più. Da quelle che sono le 'illustrazioni' dei nostri territori sarà bisognevole apprendere il magistero, e non limitarsi vanamente a decantarne le lodi e le comuni origini: bisogna fare cultura e non semplice nozionismo, non so se mi spiego; forse meglio potrei dire, segnalando che bisogna crescere e non semplicemente ristare su allori dei quali non si ha alcun merito ('fruizione inerte', chiamerò così questo stato o disposizione). Col termine 'illustrazioni', oggi desueto, si indicavano i personaggi la cui chiara fama dava lustro ai loro luoghi d'origine, coloro che, come il Vizza e tanti altri, pur provenendo da luoghi geograficamente marginali, hanno saputo scegliere e perseguire strade che fanno vero onore a loro e, seppur solo di riflesso, a quanti si gloriano di concomitanza geografica di natali. Quel che è di Cesare è di Cesare, ma stranamente sembra che occorra 'concederglielo'!...
Bene, fine della tòtula. Seguono: la recensione alla pubblicazione su Giano Lacinio, apparsa sulla rivista 'Itaca', a firma Massimo Vivarelli, e qualche 'nota' (sono effettivamente delle note in calce), così, tanto per mettere qualche pulce nell'orecchio dell'eventuale lettore (G. D'Ancora, Ricerche filosofico-critiche sopra alcuni fossili metallici della Calabria, Livorno 1791).
A Ciccio dico solo 'abbimi caro', sempre che sia sopravvissuto, come spero, al panegirico di cui sopra.