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mercoledì 10 febbraio 2016

§ 194 100216 Luigi Lilio nella 'Galleria dell'Accademia Cosentina', di R. Cirino.

Cosenza, 'Atene delle Calabrie'... dove trovano accoglienza e si presentano, con garbo e cognizione di causa, la vita e l'opera dell'astronomo e medico cirotano, rifuggendo tanto da clangori di tube (la 'borea nazionale' di G. F. Pugliese) quanto da cedimenti remissivi a certa letteratura, non solo italica, che avrebbe voluto privare Cirò (e 'le Calabrie') di questa sua 'illustrazione' ('faro', potremmo dire, o gloria indigena).  
La letteratura, intorno a Luigi Lilio, si è ormai consolidata, mentre rimane un po' nell'ombra la figura dell'altro Lilio, Antonio, quello che, a ben guardare, dei due fratelli è forse quello che di più ha dovuto barcamenarsi, attirandosi simpatie e antipatie di Gregorio XIII, il sanguigno pontefice bolognese che certamente non doveva difettare di scatti d'ira con le inevitabili conseguenze per i malcapitati che ne erano oggetto. Purtroppo, allo stato attuale, ben poco si sa di questi due fratelli, soprattutto se si rapporta questa scarsa mole di notizie all'entità dell'opera prodotta e al risultato conseguito.
Possiamo comunque sperare in nuovi rinvenimenti, in fondo la ricerca scientifica, a Dio piacendo, non si arresta mai: noi (quelli come me) non li vediamo, ma gli studiosi... studiano, e scoprono, e offrono il loro sapere. Chissà che un giorno di questi, qualche nostro compaesano non ci voglia comunicare 'magno cum gaudio' di avere scoperto che...
Nel frattempo riporto, dall'edizione veneziana, Giunti 1582, il frontespizio e alcune pagine de 'Il calendario gregoriano perpetuo', tradotto dal latino nell'italiano idioma, dal Reverendo M. Bartholomeo Dionigi da Fano  (pagine che si possono reperire, in anastatiche di altra edizione, anche nel più volte in seguito citato volume di Mezzi e Vizza, alla voce 'Privilegio di Antonio Lilio').
   


                                                     GREGORIO PAPA XIII.
                                                            A futura memoria.
Havendo noi già alquanti giorni commandato, che si stampi publichi, (come nelle nostre lettere sopra di cio fatte, piu pienamente si contiena) il Calendario Romano, con somma diligentia di nostra commissione corretto e compito, e da noi approbato, insieme con l'opera del nuovo modo di correggere, esso Calendario, e col martirologio, dal quondam Aluise Gilio diligentemente  fatto e compito, secondo la regola di detto Calendario nuovo; havendo noi il debito rispetto alla faticosa e non mai stanca operatione del nostro diletto figliuolo Antonio Gilio dell'Umbria habitante in Roma, dell'arti di medicina dottore, e fratello germano di detto Aluigi, qual egli a fatta nell'acconciare detto Calendario; giudicando esser il dovere, che secondo che per le sue lunghe vigilie e fatiche questa opera per la maggio parte al suo fine è stata condotta, cosi anco con la sua cura e diligentia siadata fuori, e si conservi da gli errori e falli netta. E però volendo (accioche si possi anco allegrare dell'effetto della sua industria e vigilee,) favorire il detto Antonio Gilio con favore di gratia speciale. Motu proprio, e non ad instantia d'alcuna dimanda fatta a noi da detto Antonio, ò da altri in nome suo, ma per nostra certa scientia,e per la pienezza dell'Apostolica potestà, concedemo per tenor delle presente a detto Antonio, che per dieci anni prossimi nissuno posto in terre de' Christiani, sia di che grado, ordine, ò conditione esser si voglia possi stampare ò far stampare detto Calendario, opera, e Martirologio, overo parte alcuna di loro, ò qual se sia altra cosa, ch'in qual si voglia modo sia causato, ò dipenda dalla opera della correttione di detto Calendario, e dal ciclo delle Epatte, e dal modo dell'Equatione dell'anno Solare, e Lunare dal predetto Aluigi trovate, senza espressa licentia di detto Antonio overo de' suoi heredi; ne stampati li possa vendere, ò metterli in publico per vendere, ne haverli ò tenerli nelle proprie case ò altrove, etiam che in dono, ò adimprestito, ò altramente li venissero in mano. Prohibendo distrettamente a tutti, et a ciascuna persona dell'uno e dell'altro sesso, e particolarmente a stampatori, a librari, et a mercanti, che sono cosi in Italia, come fuora di essa in qualunque altra parte del mondo, in virtù di santa obedienza e sotto pena dell'escomunica latae sententiae, dalla quale fuor ch'in articolo di morte, non possino esser assolti se non da noi, ò da Pontefici, ch'a quel tempo seranno, havendo però prima sodisfatto il danno, e pagato la pena posta; et a quelli c'habitano nelle terre alla Santa Romana mediate ò immediate sogetti, sotto pena della perdita de' libri e di mille ducati d'oro di camera, da esser applicati per la mittà alla camera Apostolica e per l'altra mittà a detto Antonio overo a suoi heredi; nelle quali pene senza altra dechiaratione incorrano tante volte quante essi contrafaranno,e tutti quelli che li daranno aiuto, consiglio ò favore, et quelli che tal cose faranno, taceranno e non revellaranno, di qualunque grado stato, ordine, conditione e dignitade se siano, che durante detto decennio non ardiscano over presumano di sotto alcuna forma in luoco alcuno stampare ò far stampare, senza espressa licentia e consenso di detto Antonio Gilio ò de' suoi heredi, ò stampati da qualunque senza detta licenza, vendere ò tener fuori per vendere overo in casa o in altro luoco tenere, etiam che li fossero imprestati o donati, over altramenti dati, il detto Calendario et opera, et il predetto Martirologio, overo alcuna parte di loro, e qualunque altra cosa, che a modo alcuno sia causata o dependi dalle predette opere. Comandando di più a tutti e cadauno, che a recitare il divino officio obligati sono, in virtù di santa obedienza, che non adoperino altro Calendario, che questo in Roma stampato over altro che di licenza di detto Antonio Gilio, ò de' suoi heredi stampato in altro luoco sia. Percioche essendo nuovi tutti i canoni di questo Calendario, nuova ancora la descrittione del ciclo dell'Epatta e della lettera Domenicale, si potrebbe appena fare, che non nascessero nel stamparlo de gli errori, se quelli che chiaramente questa cosa intendeno, e chell'ordine di questo calendario perfettamente conoscono, non fossero assiduamente nel stamparlo presenti. Da che non piccola diversità nascerebbe nella celebratione delle feste mobili, e nel pronunciare la Luna nel Martirologio. Quello certamente ch'altramente farà, incorra nella sententia della escomunica latae sententiae, e sappi non haver sodisfatto al suo obligo nel recitare il divino officio. Dechiarando le presenti nostre non esser a modo alcuno comprese sotto quali se siano revocationi, suspensioni, limitationi, over altre contrarie dispositioni de simili over dissimili gratie da noi ò da' nostri successori a lor tempi uscite, ma esser sempre da quelle eccettuate; e quante volte quelle usciranno fuori, tante volte s'intendino queste esser ritornate e pienamente reintegrate nel loro pristino stato, et in quello istesso, che erano prima, che quelle fuori uscissero; e che di nuovo s'intendino esser concessa sotto un'altra data, ancorche a quelle posteriore, da esser eletta quando se sia da detto Antonio overo da' suoi heredi predetti; e che cosi sia giudicato e definito da quali se siano Giudici e Comisarii, et etiam da gli auditori delle cause del palazzo Apostolico, e da' Cardinali della S.R. Chiesa, levandoli ogni facoltà, et authorità d'altramente giudicare, et insieme dechiarando essere irrito e di nissun valore tutto quello, che altramente intorno a quella cosa da qualunque di qual si voglia auttorità scientemente over ignorantemente occorrerà esser tentato. Per la qual cosa commandiamo alli venerabili fratelli. Patriarchi, Arcivescovi, Vescovi, et ad altri ordinarii de' luochi, et anco alli diletti figliuoli lor Vicarii, et Officiali, Generali, et alli legati, Vicelegati, e Governatori, del stato temporale della Santa Romana Chiesa in luoco nostro, ò del Pontefice Romano, che allhor si trovarà, in virtù di Santa obedienza, et alli lor luocotenenti et ad altri officiali; e a quali si voglia della Giustitia ministri sotto le predette pene, da esser incorse, e come di sopra si e detto, applicate, che sempre che saranno ricercati per l'osservanza, et essecutione delle predette cose, assistendo in esse col presidio di defesione efficace, faccino con la nostra auttorità, che le presenti lettere siano inviolabilmente osservate, con tutto quello ch'in esse si contiene; e frenando i contrafattori e qualunque ribello con le sopradette sententie, censure, e pene, piu volte anco aggravandole e reaggravandole, e con altri oportuni remedii de jure e de facto; chiamando anco se bisogno fara l'aiuto del braccio secolare. Non ostante le constitutioni, et ordinationi del nostro predecessore Bonifacio Ottavo, di felice memoria, e una, e nel Concilio generale de doi ma non però tre Diete, ne ostante anco le altre ordinationi Apostoliche, overo le particolari constitutioni fatte ne' Concilii provinciali ò sinodali; ne gli statuti e consuetudini, , con giuramento, confirmatione Apostolica, ò con altra fermezza fortificate e ne anco i privilegii, indulti, e lettere Apostoliche da (pia memoria.) Pio Quarto, et altri Pontefici Romani, e da noi, e da detta sede, sotto qual si voglia tenore e forma, etiam di motu, scientia, e pienezza di potestà ò altramente a qualsivoglia modo concesse al popolo Romano, overo alla stamparia drizzata in Roma, et a qual se sia Colle, Communità, Università, e persone, e particolarmente quelli privilegii, con li quali si dice provedersi, ch'i libri sacri, et altri in essi privilegii dechiarati, non possino stamparsi, ne stampati vendersi in altro luoco, ch'in detta stamparia di Roma, sotto le censure e pene ch'in essi si contengono. A' quali tutti, e ad altri contrarii, ancor che bisognasse farne particolar mentione, havendo per espressoil tenor lor nelle presenti, e dovendo essi in altri conti restar fermi nel vigor loro, per questa volta sola specialmente, et espressamente deroghiamo. E perche saria difficile, che queste nostre lettere fossero portate per tutto, ove fa bisogno, vogliamo, e con la dotta auttorità dechiariamo, ch'alle lor coppie, etiam in esse opere stampate, sia in ogni luoco in giudicio è fora, data l'istessa fede, che si darebbe all'istesso originale, se mostrato ò presentato fosse. Dato in Roma, in San Pietro, sotto il sigillo del Pescatore; alli 3. d'Aprile. M.D.LXXXII. L'anno decimo del nostro Pontificato.
Nota: il testo che precede, cioè il 'privilegio papale', è stato trascritto pari pari dal testo originale: è un esercizio utile, ritengo, per riflettere sulle modifiche che col tempo hanno interessato la lingua italiana e la sua ortografia. 

Passiamo ora alla presentazione del Nostro, così come appare nella GALLERIA DELL'ACCADEMIA COSENTINA

                         LUIGI LILIO  ca. 1510-ca. 1570

                                                         di Raffaele Cirino
ca.1510
   Sembra che Luigi Giglio, universalmente noto come Lilio, sia nato a Cirò, sullo Ionio crotonese, intorno a questa data. Non solo l’anno di nascita, ma tutta la breve vita del grande astronomo e medico calabrese sono avvolti nella incertezza. Alcuni studiosi, addirittura, mettono in dubbio la sua stessa origine cirotana. Tuttavia, per fare chiarezza su quest’ultima questione, è sufficiente leggere «quanto scrisse nel 1603 il gesuita tedesco Cristoforo Clavio, il più eminente matematico ed astronomo dell’epoca, membro della commissione istituita da Gregorio XIII per redigere la riforma del calendario Giuliano: Solus Aloysius Lilius Hipsichroneus rem feliciter et non sine Dei Optimi Maximi benignitate assecutus est» (E. Mezzi, F. Vizza, Luigi Lilio, medico, astronomo e matematico di Cirò. Ideatore della riforma del calendario gregoriano, Reggio Calabria, Laruffa Editore, 2010, p. 14). Dove Hipsicrhoneus sta per Ipsicrò, o Psychron, ossia Cirò dei nostri giorni. Un’altra prova che individua nella cittadina crotonese il luogo di nascita di Lilio è fornita da Giano Teseo Casopero, umanista cirotano, in una lettera che nel 1535 scrive all’amico Girolamo Tigano. In essa Casopero indica la famiglia «Giglio» tra le principali famiglie di Cirò (ibid.). Ma la certezza indiscutibile che Lilio fosse nato a Cirò ci viene da uno dei pochissimi documenti concreti che dice qualcosa di certo sulla sua breve vita: una lettera che lo stesso Casopero invia direttamente al geniale medico ed astronomo ormai residente a Napoli. La missiva è diretta ad Alovisio (latinizzazione di Luigi) Lilio e si conclude con questi consigli di amico d’infanzia e di studi:
«Cerca di avere mezzi da attirarti la conoscenza di uomini che potrebbero essere adescati da’ tuoi studii, e dalle sempre tue nuove scoverte, e così procurarti danaro, e saper molto vendere l’arte tua, essendo padrone di te stesso; ciò che ridonerà in tua gran lode e gloria, come colui che occupato onestamente viverà o con niuno, o col minimo dispendio di casa. Conservati, ed a tutti i nostri che in Napoli dimorano reca i miei saluti.
Da Psycro, 28 febbraio 1532».
(Jani Thesei Casoperi Psychronaei, Epistularum libri Duo, Venetiis, Bernardinus De Vitalibus, 1535, cc. 14v-15; cfr. E. Mezzi, F. Vizza, Luigi Lilio, medico, astronomo e matematico di Cirò, cit. pp. 18-19).

1526-1539
   Gli studi nel paese natale si conclusero intorno al 1526 e, probabilmente, di lì a poco, insieme al fratello Antonio, si trasferì a Napoli, frequentando dai primi anni Trenta la celebre villa di Leucopetra (presso Portici) dei fratelli Coriolano e Bernardino Martirano, una sorta di cenacolo letterario che riuniva molti studiosi meridionali, tra i quali figurano autori provenienti dalla scuola cosentina di Aulo Giano Parrasio. Oltre al sopra citato Bernardino Martirano, si possono ricordare: Antonio Telesio, Francesco Franchini, Niccolò Salerno, Giovanni Antonio Cesario. Il periodo di permanenza a Napoli non si può definire con esattezza, ma è molto probabile che nella città partenopea Lilio si addottorò in medicina. L’indizio più importante in questo senso proviene da uno scritto del 1576 di Juan Salon, De Romani kalendarii nova emendatione, ac Paschalis Solennitatis reductione (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliab. 12.6.59/a; cfr. E. Mezzi, F. Vizza, Luigi Lilio, medico, astronomo e matematico di Cirò, cit. p. 16), nel quale Lilio viene definito, oltre che matematico, anche medico: «Aloisius Lilius Medicus excellentissimus et Mathematicus…». In effetti, quella espressione della lettera di Casopero dove parla di «sempre nuove scoverte» compiute da Lilio, si riferisce alle ricerche e studi compiuti da quest’ultimo in campo astronomico. Bisogna sottolineare, per l’intelligenza del lettore, che in quel tempo medicina e astronomia erano strettamente correlate, anzi «l’astronomia era insegnata in funzione dell’astrologia e questa, a sua volta, svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che praticava la diagnostica delle malattie e ritmava l’attività di cura secondo il variare delle configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di “astroiatria”» (F. Piperno, Gian Battista Amici, un grande astronomo mancato, in Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri, a cura di M. Alcaro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 220). Approfitto di tale citazione per ricordare che in quegli anni (1536) veniva pubblicato, a Padova, un opuscolo astronomico di grande valore del cosentino Gian Battista Amico (o Amici), dal titolo De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis et epicicli (Venetiis, I. Patavino et V. Roffinello, 1536).

ca. 1540
   Intorno a questa data, Luigi Lilio si trasferisce a Roma, probabilmente su invito di un altro noto calabrese, ossia Guglielmo Sirleto (1514-1585), nato a Stilo, il quale, avendo dimorato a Napoli dal 1531 al 1539, era sicuramente venuto a contatto col genio di Lilio. Se a questo si aggiunge il grande peso che Sirleto esercitò nei confronti della commissione per la correzione del Calendario istituita da Gregorio XIII, allora le probabilità dell’influenza del Sirleto circa il trasferimento di Lilio a Roma aumentano. Immenso per dottrina e per erudizione, il Sirleto era esperto di lingua greca, latina ed ebraica, eccelleva nella storia della Chiesa, delle Scritture e della liturgia. Amava circondarsi di dotti, specie di conterranei e, probabilmente, oltre a Luigi Lilio, anche Gabriele Barrio (ca. 1506-ca. 1577) godeva della sua protezione  a Roma.
1552
   Luigi Lilio esercita la docenza di medicina nella università di Perugia. Questa perentoria affermazione possiamo farla grazie a Egidio Mezzi e a Francesco Vizza, i quali hanno ritrovato una lettera di fondamentale importanza che certifica l’attività dello scienziato cirotano nell’ateneo perugino. La presenza di Lilio in quella prestigiosa sede era stata sempre ipotizzata, e la notizia dell’esistenza di questa epistola era stata data per la prima volta dallo studioso tedesco Josef Schmid (Zur Geschichte der gregorianischen Kalenderreform, «Historisches Jahrbuch», III, 1882, p. 389). Segnaliamo che, nella ricorrenza del quarto centenario della riforma del calendario (1982), l’università di Perugia ne celebrò orgogliosamente i fasti, pubblicando per l’occasione un volume con annessa copia del Compendio liliano: Aloisius Lilius – Compendium novae rationis restituendi Kalendarium (a cura di U. Bartocci, M. Pitzurra, M. Roncetti, Perugia, Università degli Studi, 1982) nel quale, fra le altre cose, si ricorda che sfortunatamente il nome di Lilio non ricorre negli elenchi dei docenti della facoltà di medicina. Anche a Napoli non risultano documenti accertanti il suo dottorato in medicina, tuttavia, mentre in questo caso si può rilevare che solo nel 1562 il governo spagnolo promosse l’obbligo di un registro delle matricole, nel caso della docenza perugina ogni dubbio viene fugato dal documento rinvenuto dagli studiosi sopra menzionati. La missiva del 25 settembre 1552, a nome del cardinale Marcello Cervini (futuro papa Marcello II), è indirizzata a Guglielmo Sirleto, con la preghiera di intercedere presso il potente cardinale Girolamo Dandini, in favore di un aumento di stipendio regolarmente previsto per i docenti più meritevoli (una specie di «premio di produzione» delle amministrazioni dei giorni nostri). Riportiamo qualche passo nella trascrizione dello storico Giovanni Murano.
   «Messer Guglielmo carissimo. So stato alquanto pensando se dovevo scrivere questa lettera alla Signoria Ill.ma mia e a voi che gliela leggerete, et finalmente mi so risoluto per esser voi […] informato di messer Aluigi Gigli, lettor di medicina in Perugia, et raccomandare di che io la servirò, di indrizzarla a voi come a quello che potrete dar più particolare informatione a Sua Signoria Reverendissima di lui che non haria fatto io con una semplice lettera. Visitarete adonque prima Sua Signoria Reverendissima in nome mio et appresso li direte che avendo io inteso com’ella ha preso già protettione del detto messer Aluigi, secondo il solito della cortesia sua, non posso fare di non rendergliene grazia aiutando una persona così dotta et dabene, come voi sapete che è questa, la quale, per quanto intendo, è molto grata a tutto quello Studio […]. La donde se Sua Signoria Reverendissima si degnerà di continuar d’interporre l’opra sua acciò che messere Aluigi non venga scordato, oltra che farà cosa degna di lui, io ancora la riterrò molto grata. Et con questo fine basate le manj santamente in nome mio a Sua Signoria Reverendissima. Che nostro Signore Dio vi conservi in sua gratia.
[…] alli 25 settembre 1552»
(cfr. E. Mezzi, F. Vizza, Luigi Lilio, medico, astronomo e matematico di Cirò, cit., p. 26).

1570-1576
   Sfortunatamente anche sulla morte di Luigi Lilio non si ha una data certa. Alcuni studiosi la fanno risalire al 1576, mentre altri la fissano al 1570, come fa Augusto Placanica (Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1999, pp. 231-232). In ogni modo, com’è facilmente intuibile, l’ideatore e progettista della riforma del calendario non era più in vita quando la stessa venne attuata.

1577-1582
    Del manoscritto liliano non v’è ancora traccia, forse è andato definitivamente distrutto, ecco perché si parla di Compendium, ossia di una sintesi redatta dal fratello Antonio e da altri studiosi, tratta direttamente dal manoscritto di Aloisio e stampata a Roma nel 1577, nella tipografia degli eredi di Antonio Blado «Impressores camerales». Curato da Guglielmo Sirleto, cardinale di S. Lorenzo in Panisperna, i collaboratori della stesura del sommario erano i componenti della commissione istituita da Gregorio XIII. Non si conosce la data precisa nella quale ebbero inizio i lavori dell’assise, ma su informazione di Clavio si sa che la stessa lavorò per dieci anni per cui, facendo due conti a partire dalla promulgazione del 1582, si insediò probabilmente nel 1572. I membri erano Cristoforo Clavio, astronomo e matematico gesuita del Collegio Romano; Pedro Chacòn, teologo spagnolo esperto in patristica e martirologia, assistente per le feste mobili; Vincenzo di Lauro, di Tropea, vescovo di Mondovì, astronomo e medico; Antonio Lilio, medico e fratello di Luigi; Leonardo Abel, di Malta, esperto in lingue orientali; Ignazio Danti, di Perugia, domenicano vescovo di Alatri, cartografo e matematico; Serafino Olivier, francese di Lione, Uditore di Rota, esperto di diritto canonico e civile; Ignazio Nehemet, patriarca di Antiochia di Siria, esperto della liturgia dei riti occidentali ed orientali, nonché cultore della cronologia ecclesiastica. Una volta terminati i lavori, i risultati furono inviati ai regnanti e ai matematici di tutta Europa, ed in seguito alla presa d’atto che quella Liliana era la migliore correzione rispetto al calendario Giuliano, la commissione presentò al papa il rapporto definitivo il 14 settembre 1580. Detta relazione portava come titolo: Ratio corrigendi fastos confirmata, et nomine omnium qui ad calendarii correctionem delecti sunt ablata SS.mo D. N. Gregorio XIII. In queste pagine la commissione attestava di aver adottato rigorosamente l’unico computo in grado di fornire un calendario perpetuo, dedotto dal ciclo delle Epatte calcolato da Luigi Lilio. Il 24 febbraio 1582 con la Bolla Inter gravissimas pastoralis offici nostri curas, Gregorio XIII promulgò il nuovo calendario che prese il suo nome. Inizialmente il papa pensava di trarne un volume appositamente scritto per sottolineare la straordinarietà dell’evento, tuttavia, per la premura di divulgare al più presto la riforma, lo scritto, affidato materialmente a Pedro Chacòn, venne drasticamente ridimensionato. Il Compendium novae rationis restituendi kalendarium fu ritrovato, quando ormai si riteneva perduto, nel 1981 dallo storico Gordon Moyer (Il calendario gregoriano, «Le Scienze», 167, 1982, pp. 72-81). Come spesso accade anche in questi casi, vi fu un passaggio di informazioni, apparentemente inattendibili, tra studiosi di diversi luoghi. Thomas Settle, storico della scienza del Politecnic Institute di New York, comunicò al collega dell’Università di Chicago, N.M. Swerdlow, noto storico dell’astronomia antica e moderna, che negli ambienti accademici interessati alla questione circolava voce che una copia del Compendium potesse trovarsi nella Biblioteca Nazionale di Firenze, e ne scrisse immediatamente al Moyer. Quest’ultimo, dopo poco tempo, nel 1981, trovò il famoso scritto, e ne annunciò la scoperta nel 1982 sulla rivista «Le Scienze». L’esemplare era stato catalogato come opera anonima, non presenta frontespizio, è composto da 12 fogli non numerati, e nelle prime righe è scritto «Liber ab Aloysio Lilio conscriptus». Il testo richiama i punti fondamentali del manoscritto, come si legge ad un certo punto: «Ma dato che il libro non è ancora stampato [Sua Santità Gregorio XIII] stimò che fosse sufficiente, messe da parte tutte le altre cose, di indicare brevemente soltanto i punti principali, che massimamente contengono il fatto e la spiegazione» (G. Moyer, Il calendario gregoriano, cit., p. 72).

1582
   Ci si potrebbe interrogare ulteriormente intorno al perché di tanta urgenza. In realtà, la «reparatio kalendarii» era una questione vecchia di almeno quattro secoli, da quando cioè le gerarchie ecclesiastiche si resero conto che il calendario Giuliano assegnava un periodo all’anno solare più lungo rispetto al moto di rivoluzione terrestre da cui realmente dipendeva la sua durata. In altre parole, le celebrazioni religiose che regolano la liturgia della chiesa la quale, a sua volta, si fonda sui movimenti astrali subivano un ritardo costante. Specie la fissazione della Pasqua, ossia la ricorrenza che regola tutte le feste mobili annuali, era diventata ormai ingovernabile. Per fare un esempio, si può considerare che all’epoca di Lilio il Natale si celebrava sempre nello stesso giorno del 25 dicembre, tuttavia l’evento astronomico che denota proprio questa festa, cioè il solstizio invernale cadeva il 13 dello stesso mese. Ancora oggi qualche anziano contadino è convinto che sia vero il detto: a Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia. La stessa cosa avveniva per l’equinozio di primavera che a quel tempo ormai cadeva l’11 di marzo, e siccome la Pasqua si regola in base al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera (secondo il calcolo dell’epatta anch’esso riaggiustato dalle correzioni di Lilio), quest’ultima col passare degli anni sarebbe divenuta una festa invernale.

A tutto ciò si era aggiunto un altro problema impellente per i regnanti d’Europa: «la navigazione al di fuori del Mediterraneo, quella oceanica, aveva mostrato l’inaffidabilità delle tavole astronomiche tolemaiche proprio quando c’era più bisogno di disporre di informazioni precise sulle posizioni dei corpi celesti nel cielo notturno per orientarsi, o meglio, tracciare la rotta in mare aperto» (F. Piperno, Gian Battista Amici, un grande astronomo mancato, cit., p. 218). Per cui, si potrebbe rispondere all’interrogativo posto sopra che mai come nel caso del dispositivo primario per cadenzare l’umano trascorrere dei mesi e degli anni, bisognava guadagnare tempo.

Dopo la sua morte, a Lilio venne dedicato nel 1651 un cratere lunare da parte di Giovanni Battista Riccioli nell’Almagestum Novum (Bononiae, Haeredis Victorii Benatii).

Bibliografia

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G. Aromolo, Verso la gloria (Alovisius Lilius), Catanzaro, La Giovine Calabria, 1920.
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G. Brunelli, Marcello II, papa (Marcello Cervini), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 69, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2009.
G.V. Coyne, M.A. Hoskin, O. Pedersen (a cura di), Gregorian Reform of the Calendar: Proceedings of the Vatican Conference to Commemorate its 400th Anniversary, 1582–1982, Vatican City, Pontifical Academy of Sciences, 1983.
L. Lilio, Compendium novae rationis restituendi kalendarium, Romae, apud haeredes Antonij Bladij impressores camerales, 1577; rist. anast. a cura di U. Bartocci, M. Pitzurra e M. Roncetti, Perugia, Università degli Studi, 1982.
G. Moyer, Il calendario gregoriano, «Le Scienze», 167, 1982, pp. 72-81.
C. Preti, Giglio, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 54, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000.
F. Piperno, Gian Battista Amici, un grande astronomo mancato, in Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri, a cura di M. Alcaro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 218-258.
A. Placanica, Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1999.
G.B. Riccioli, Almagestum Novum, Bononiae, Haeredis Victorii Benatii, 1651.
J. Salon, De Romani kalendarii nova emendatione, ac Paschalis Solennitatis reductione (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Magliab. 12.6.59/a).
J. Schmidt, Zur Geschichte der gregorianischen Kalenderreform, «Historisches Jahrbuch», iii, 1882, pp. 388-415, 543-595; v, 1884, pp. 52-87.

domenica 7 febbraio 2016

§ 193 070216 A madonnedda.

   'A Madonnedda segnava le colonne d'Ercole per gli abitanti della 'Stazione'. Oltrepassarla imponeva l'acquisizione di conoscenze successive a quelle tipiche dell'infanzia e forse dell'adolescenza. Arrivava un giorno in cui, locchi locchi, e a rasa rasa, con una certa eccitazione e un po' di timore, ci si staccava dalla ruva 'mamma' per inoltrarsi fino alla piazza e al lungomare, 'u muragghjunu', roba da grandi.
    'A Madonnedda è sopravvissuta, u campiceddu, poco oltre, ha ceduto il posto ad un supermercato, il lussurreggiante jardinu di agrumi ha ceduto il posto a quella 'fràvica' perenne che si vede a destra nella foto, i pioppi che si alternavano, ora da un lato, ora dall'altro, di via Roma sono passati a miglior vita, i lastroni di cemento che coprivano 'a conetta' hanno lasciato il posto a marciapiedi che sono la negazione della cura dei particolari. Su quei lastroni di cemento le bambine giocavano alla campana.       Chissà che qualche casella segnata col gesso non sia ancora rinvenibile, o che non sia rimasta a mezz'aria qualcuna di quelle espressioni tanto amabili quanto sgrammaticate di quando giocando a palla cotro i muri annunciavano 'alle bàttere... zigo zago...'
   A volte mi fermavo, quando tornavo nella casa dei miei, spesso sentendo di trascinarmi, o meglio, di essere trascinato da un motivo che mai sono riuscito ad isolare e intendere precisamente, fino a quella piccola edicola votiva, per guardarci dentro e rileggere le scritte e le figurine e le medagliette affisse, come se non sapessi a memoria cosa c'è scritto, quali voti vi sono custoditi, quali monetine vi risiedono, casualmente, al suo fondo, le stesse da decine di anni, come voglio immaginare.
   Intorno, a parte quelle costruzioni dove il cemento mi sembra più nudo e freddo che altrove, non c'è più quasi nulla che mi riporti agli anni andati, nulla di nulla, solo la memoria, soprattutto la memoria, e l'erosione che la aggredisce. 
   Mi porto dietro memoria di tanti nomi, e relativi, immancabili soprannomi, e di giochi che oggi sembrerebbero tribali o selvatici, quando non selvaggi... non credo che in Europa e forse nemmeno nel resto del mondo, si giochi a sassate o a frecciate, vere, con astine appuntite di vecchi ombrelli in disuso.
   Questo è il regno del verosimile, dove tutto ciò che potrebbe essere vero diventa incredibile e allo stesso tempo reale. Era una concessione al potere della fantasia e non lo sapevamo, non eravamo in grado di capirlo, qualcosa da vivere ma senza una ragione né una razionalità, peccato, peccato che tutto si sia sfaldato così, senza nemmeno prenderne coscienza.
   Quelle zie Marantòne, quei Zzi Peppi, quei Masti Lissandri, putigari, partuvaddari, fezzari, ferruvieri, cantuneri, masti 'e scola, battalamieri, tutto un mondo di gente si è spesa così, con le speranze per un futuro migliore per i propri figli e per la terra che quei figli avrebbero troppo spesso abbandonato per un avvenire speso, anzi contratto, in un ovunque fatto di grandi città, di periferie, di paesini, tutti, questi luoghi della diaspora, nobilitati dall'ubicazione in un altrove che imponeva un rispetto automatico, un inspiegabile timore reverenziale.
   Penso, ripenso, ogni volta che ci vado, ma quella che più mi rimane dentro è la sensazione di un vento quasi tangibile, di una desolazione sempre più evidente, di un silenzio che a queste latitudini non ti aspetti... si sentono soprattutto imposte che sbattono, come è giusto che sia, e cani che latrano, quasi a segnalare la loro presa di possesso di quelle vie, di quella 'ruva'.
   Cirò Scalo, così scrivevamo quelle date ormai dimenticate sui quadernetti delle elementari... 
   Che inguaribile ciotareddu che sono!... ma su questo sarà meglio che non insista...


mercoledì 3 febbraio 2016

§ 192 030216 Quintino Farsetta: na fatta 'e panu.

Dalle 'Note di dialetto cirotano', pagina fb che, partita benissimo, ormai arranca (nel significato italiano del termine) sempre più, estràpolo questa paginetta, questo quadretto, dell'ostinatissimo (quanto a presenze sulla suddetta pagina) amico Quintino Farsetta, marinoto da lungo tempo residente (o forse 'esiliato'?, Mah...) a Tradate. E' un bel bozzetto, una acquaforte marinota, dico, mèmore io delle 'aguafuertes arltiane', roba dell'altro lato del mondo, che non c'entra forse nulla, ma che mi piace ricordare per mio uso personale: questione di reminiscenze, reviviscenze, resipiscenze, riminijamenti, scotulijamenti.
Il rituale antico della preparazione domestica del pane credo rimanga vivo, davvero incancellabile, nella mente di quanti lo hanno vissuto,con quelle modalità 'altre' legate alla necessità e anche... alle virtù che da quelle necessità traevano spunto ed evidenza. Saper fare il pane, per inciso, faceva più o meno parte della dote che la futura moglie portava nella casa dello sposo, era una qualità, una perizia, quasi imprescindibile, tra le varie 'arti' richieste alla 'donna da marito'... 'donna da marito', cosa mi tocca dire!, come 'uva da tavola' o 'macchina per scrivere', ma lasciamo stare le 'destinazioni d'uso' delle signore e signorine, e torniamo a Quintino, il quale dimostra di ricordare bene i punti salienti di quel rituale (e dico 'punti salienti' in quanto a noi masculiddi qualcosa, di quell'arte tutta femminile di fare il pane, sarà senza dubbio sfuggita, non potrebbe essere diversamente).
Per quanto riguarda grammatica e lessico cirotano, l'autore del bozzetto (che non per nulla si diletta di pittura) se la cava sempre meglio, anche se adotta accorgimenti un po' differenti da quelli escogitati dal sottoscritto: differenti non significa che abbia ragione lui, né tantomeno che sia io ad averla, ci stiamo lavorando, almeno fino a quando (per parte mia di sicuro) da buoni cirotani non lasceremo perdere... ovvero: Cirò, a sira ca sì, a matina ca no.
Chiudo: se qualcuno volesse tradurre o suggerire qualcosa, ca s'accalassa, è bonuvenutu com a prim 'e maj.
Attac, Quintì:
Za Filomena 'sta matina va r assaccannu 'e prima matina. Tena de fari na fatta 'e panu ppe nu famijjiunu. Ha cuminciatu a scanari d' i cinqui mentri ca i guagnuni dormivini. Na majidda 'e pasta ca ccu ru levatu sta levitannu e si vida ca 'mpuma. Mo sta papariannu nturnu u furnu ppecchi' è de cuninciari a mintiri l'ocisu. Zu 'Ntonu l'ha portatu nu carricu 'e jinostra e de scini, ccu vampujji 'e mucchi. 
'E cussì l'ocisu ccu nu battiru sbampa r a nnavota.
Mariettedda , a fijjia ranna, ha mannati i guagnuni a ra scola e r è scinnuta ppe aiutari a mammisa.
'' Marì... pia u furcatu e jetta i fraschi n'tu furnu... Unn'u fari stutari, m'arriccumannu... vida un ti vrusci i capiddi... ca je vaiu a stajjari u panu , ca u mpastu ha già levitatu ed è prontu... Je vaju... m'arriccumannu''.
Za filomena si liga 'na tuvajjiula janca a ra capa, si minta nu sinalu jancu, pija r 'a rasula e cumincia a stajjiari morzi e pasta ca jett subba u jestilu e cumincia a priparara a 'mpurnata.
'' Ma' .. Duuvi suni rasteddu e scupulu pe ricojjiri i vrasci ? U furnu è prontu, 
'' Vida bbona chè ene d' esseri dda''
U furnu è cavuru e si pò 'mpurnari'.
A pala va avanti e arreta..... avanti e arreta. 
Za Filomena ha fatti i scocchi a ra faccia. A punta d'a tuvajjiula 'nta vucca e avanti e areta ccu ra pala.... 'npurna e sfurna ... 'npurna e sfurna. 
U profumi d'u panu friscu ti jetta n'terra. U cchiù bellu profumu d'u munnu.
Na fatta è panu è pronta.